Il filosofo e saggista: «Allontanarli dagli smartphone? Inutile, la tecnica è già diventata soggetto della storia e noi siamo diventati il funzionario dell’apparato tecnico»
Nino Luca / CorriereTv
Il professor Umberto Galimberti risponde, a margine della presentazione milanese del libro di Alessandro Vinci «Fiaccole e non vasi», sull’esplosione di casi di disturbi del comportamento alimentare e di disagio psicologico tra i nostri giovani. In particolare dopo il Covid.
«Le neuroscienze ci danno un’altra spiegazione, secondo me molto più valida. Non dobbiamo dimenticare che i neuroni della razionalità arrivano a maturazione a vent’anni e prima invece il cervello, soprattutto quello “antico”, influenza moltissimo ed è la sede delle emozioni. I ragazzi, dai 16 ai 20 anni) vivono sballottati dalle emozioni. Ma questi ragazzi di oggi, vivono all’interno di famiglie “disastrate”, diciamolo chiaramente. Una volta, quando c’era la tradizione, si sapeva come si faceva una famiglia e questa stava in piedi. Una volta, c’era la povertà e con la povertà anche la virtù, che non è mai figlia di una scelta, è figlia di una necessità. Se si è poveri bisogna essere morigerati. Adesso però è subentrata questa cosa. Loro cominciano a prendere il digitale, a giocherellare intorno ai 6-7 anni e cosa succede? che tu perdi un’infinità di capacità primo non sai più scrivere. Una volta si faceva quella che si chiama una “bella scrittura”, cosa molto importante. La scrittura attiva dei neuroni che altro che se non muovi la mano, non si aprono. E questo già lo diceva Kant a suo tempo. Diceva che la mano è il cervello esterno dell’uomo. Poi c’è questo sviluppo dell’apparato emotivo perché tu hai a che fare con una struttura, una visione. Quello che oggi serve ai giovani non ce l’hanno perché l’hanno letto, ma perché lo hanno sentito o l’hanno visto. E quindi loro si trovano a sviluppare una sorta di intelligenza simultanea. Come quando io guardo un quadro non ho bisogno di andare da destra a sinistra da sinistra a destra e via di seguito... Basta un colpo d’occhio. Cosa succede però, che non leggendo più e i ragazzi non leggono, succede che io disabituo il mio cervello a tradurre dei segni grafici in immagini. Se io leggo la parola c-a-n-e, il mio cervello, da quei segni grafici, deve costruire un’immagine e questo non succede più».
Quindi dovremmo allontanarli dagli smartphone, dai social?
«No, non si può più. Un giorno che ho accompagnato mio nipotino a scuola, una signora mi ha riconosciuto, mi ha chiesto: “Professore, mio figlio fa la 4ª elementare, vuole uno smartphone. “E glielo dia...”, risposi. “Ma perché dice così? Perché sennò non è che lo priva di un mezzo di uno strumento tecnico, lo priva della socializzazione”. Quello che la gente pensa, e qui veramente divento feroce, è che la tecnica sia ancora uno strumento nelle mani dell’uomo. La tecnica invece è già diventata il soggetto della storia e noi siamo diventati un funzionario dell’apparato tecnico».
E allora che fine dobbiamo aspettarci?
«Nichilismo duro e puro, insomma quando ci si trova di fronte a 400 suicidi in età scolare... Questa non è una novità perché già Freud nel 1909, nella lettera ginnasiale, aveva scritto che la scuola deve fare qualcosa di meglio che indurre i giovani al suicidio. Ma soprattutto questi ragazzi non hanno il futuro, è inutile far discorsi. Io ho incominciato a insegnare filosofia in un liceo un anno prima di laurearmi perché non c’erano professori di filosofia. Il futuro era lì ad aspettarmi. Ma se il futuro non è lì e non lo vedi, è imprevedibile. Non retroagisce come motivazione. Perché devo lavorare? Perché devo studiare? Perché darmi da fare? E al limite perché devo stare al mondo». |