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Intervista a Matteo Lancini sulla strage di Paderno

Condividiamo l’intervista di Chiara Bidoli a Matteo Lancini per corriere.it

Il triplice delitto di Paderno Dugnano ci porta a fare i conti con le nostre paure più inconfessabili. La vita del 17enne che ha ucciso a coltellate il fratellino e poi i genitori, proveniente da una famiglia “normale”, come tante, con le giornate scandite tra scuola, amici è sport, è drammaticamente simile a quella dei nostri ragazzi, figli, nipoti, studenti. La domanda che tutti ci poniamo, via via che emergono i dettagli di questa terribile storia, è come sia possibile che un ragazzo apparentemente felice, che viveva in un contesto apparentemente sereno, si sia trasformato in un mostro. E ancora, ci sono dei segnali che è possibile cogliere in questa generazione di adolescenti caratterizzata da una sofferenza che, sempre più spesso, sfocia in atti violenti verso se stessi o il prossimo? Abbiamo chiesto a Matteo Lancini psicologo, psicoterapeuta e autore del libro «Sii te stesso a modo mio», di aiutarci a riflettere su questa vicenda perché possa essere di aiuto per capire meglio gli adolescenti di oggi.

Perché questa vicenda ci tocca così da vicino?
«È indubbio che questa è una di quelle storie che lascia tutti sgomenti e che rimarrà nella mente di ognuno di noi per molto tempo, un po’ come era successo con quella di Erika e Omar (che avevano ammazzato madre e fratello di lei a Novi Ligure, ndr) e il recente caso Turetta (omicida della fidanzata Giulia Cecchettin, ndr). Anche in questo caso è stata coinvolta una famiglia apparentemente “normale” e questo porta, comprensibilmente, i genitori a porsi la domanda: ma se dovesse succedere a noi? Per cercare di dare senso a questi avvenimenti e provare a trasformare le crisi, anche quelle più devastanti, in un’occasione di sviluppo culturale e di crescita, partirei da una delle prime dichiarazioni del 17enne che ha detto agli inquirenti di “sentirsi solo anche in mezzo ad altri”. Questa è una condizione che colpisce tanti, tantissimi giovani. Anni fa, quando ho iniziato a studiare gli effetti del web sui ragazzi, ero convinto che i ragazzi su internet si sentissero soli ma, negli ultimi anni, ho rivisto questa posizione. Credo che i ragazzi sul web vadano anche per ridurre quelle quote di dolore e solitudine che non riescono a esprimere in altro modo e che sperimentano quando sono insieme ai propri adulti di riferimento».

Le responsabilità cadono quindi sulla famiglia?
«Non c’è un’accusa verso la famiglia o la scuola ma è necessario avviare una riflessione all’interno del mondo degli adulti. Viviamo in una società dove, apparentemente, ascoltiamo molto di più i nostri figli rispetto a quello che facevano i nostri genitori o i nostri nonni. Come mai, invece, i ragazzi sono così distanti da noi e facciamo fatica a comprenderli o anche solo a comunicare con loro? C’è una narrazione che cerca di trovare delle spiegazioni al fatto che i ragazzi siano “troppo” al centro del mondo o che non siano abituati a gestire le frustrazioni, ma il vero problema è che gli adolescenti di oggi fanno sempre più fatica ad esprimere le proprie emozioni, soprattutto quelle che riguardano la nostra fragilità di esseri umani e che la società tende rimuovere: il dolore, la rabbia, la tristezza. È come se avessimo messo in atto un meccanismo di difesa, una reazione alla nostra fragilità. Ci fa comodo dare la colpa a qualcosa al di là di noi, che possono essere per esempio i Social network, lo smartphone, la pandemia e, inconsapevolmente, impediamo ai ragazzi di “mettere in parola” le loro emozioni. Questo è il tema centrale e il vero problema».

Gli adulti di riferimento cosa possono fare, concretamente, per aiutare i ragazzi a esprimere le proprie emozioni?
“Dobbiamo prendere queste occasioni di riflessione collettiva per capire che abbiamo l’opportunità straordinaria di smettere di pensare che basti chiedere ‘come va’ per aver assolto il nostro compito di genitori attenti. L’educazione affettiva, sessuale, l’ascolto in famiglia dev’essere qualcosa di sentito, che permetta ai giovani di mettere in parola i propri sentimenti, anche quelli più disturbanti. Smettiamo di porci verso i ragazzi solo con l’idea di educare (ti dico io cos’è giusto e cosa no) e privare (ti tolgo internet, smartphone…), ma bisogna far sentire loro che vogliamo davvero sentire il loro parere, che il loro pensiero per noi conta”.

Non c’è il rischio di essere troppo accondiscendenti?
«Ascoltare i ragazzi non significa dar loro ragione. Se un adolescente dice cose di cui non siamo d’accordo a livello valoriale non dobbiamo legittimarle, ma dobbiamo legittimare i loro pensieri, far sentire che siamo adulti presenti in grado di riconoscere le loro emozioni. I figli, va ricordato, sono altro da noi. Io credo che questo sia l’insegnamento più grande: accettarli e pensarli come individui da conoscere e rispettare».

Dalla sua esperienza, gli adolescenti di oggi fanno più fatica ad aprirsi con gli adulti?
«I ragazzi oggi non parlano, o parlano poco, perché le emozioni disturbanti infastidiscono troppo gli adulti che non si rendono conto dell’importanza di accogliere ogni tipo di emozione. Se ciò non avviene, inevitabilmente, il dolore muto si trasforma e, durante l’adolescenza, diventa un’azione. Che può essere un’azione contro di sé, basti vedere l’aumento dei suicidi, dei tagli da autolesionismo, dei disturbi alimentari nei ragazzi. Il dolore si trasforma in violenza che può sfociare, oltre che in gesti autolesivi, anche in una strage distruttiva, come in questo caso, confermando tra l’altro che è un dolore che può coinvolgere tutti i giovani e, i numeri ci dicono, soprattutto quelli provenienti da ceti socioeconomici e culturali non particolarmente marginali e disagiati. E questo rimette al centro il vero tema: c’è un dolore mentale che aumenta nell’assenza di possibilità di condividerlo. Credo che solo la relazione, intesa come una relazione identificata con l’altro, ci possa aiutare».

Perché facciamo così fatica a comunicare con i ragazzi, cos’è che non capiamo?
«Viviamo in una società fragile e complessa, bombardati da messaggi e stimoli, non siamo capaci di “stare”, siamo concentrati sul “fare”. Stare non significa stare fermi, ma essere in grado di restare lì ad ascoltare cosa ha da dire l’altro, anche se quello che dice l’altro è la cosa più distante da noi, dalla nostra visione del mondo. Ricordiamoci sempre che i figli sono altro da noi e che il dono più grande che possiamo fare loro è ascoltarli davvero. Invece, tendiamo a mettere al centro la nostra necessità di avere risposte in linea con la nostra linea educativa, così da essere rassicurati e sentirci adeguati come genitori. Che, poi, è un segnale di una nostra fragilità, non di una nostra autorevolezza. Siamo più concentrati a sentire che stiamo facendo il ‘bravo papà’, la ‘brava mamma’ o il ‘bravo insegnante’, piuttosto che stare ad ascoltare cosa hanno da dire i nostri ragazzi che, piuttosto che parlare, preferiscono tacere per non provocare dolori e dispiaceri agli adulti di riferimento».

Ci sono dei segnali che possono allarmare? A cui prestare particolare attenzione?

«Andare a intercettare i segnali premonitori, purtroppo, non è possibile, è difficile e spesso tra l’altro non esistono segnali evidenti. Lavorando ogni giorno con il dolore dei ragazzi manifestato nelle sue forme più estreme, suicidi e gesti disperati, posso dire che con il passare tempo, e accadrà anche per il ragazzo di Paderno, verranno colte delle abitudini o dei gesti che ci daranno la falsa convinzione di avere capito tutto. In realtà abbiamo una sola possibilità per prevenire eventi così terribili, che non si coltivano in una notte. L’unica possibilità è provare a prevenirli, creando le condizioni per cui le emozioni, anche quelle più disturbanti, non solo quelle della “società della felicità” che rimuove il dolore, possano trovare un loro spazio di espressione. Solo se il disagio riesce a diventare parola, solo quando un figlio si sente pensato e viene legittimato il suo pensiero, si fa prevenzione e viene fatta educazione».

Perché gli adolescenti pensano spesso alla morte?
«In adolescenza la morte si affaccia in maniera preponderante perché c’è una necessità evolutiva di dar senso alla vita. La trasformazione del corpo, tipica della pubertà, innesta anche dei cambiamenti a livello cognitivo, in quello che Piaget definì come ‘passaggio al pensiero ipotetico deduttivo’, ovvero l’accettazione di non essere onnipotenti ma mortali. I ragazzi hanno bisogno di sentire parlare, sia a casa che a scuola, di morte e suicidio perché sono temi al centro dei loro pensieri. Bisogna anche sfatare il mito che parlare di morte e suicidio alimenta questi pensieri nei ragazzi, anzi, ribadisco, è una necessità evolutiva. “Che senso ha la vita se morirai”, a questa domanda si cerca di rispondere in adolescenza. Anche immaginare il futuro ha a che fare con il pensiero della morte, perché ci permette di mettere di limiti, di porci dei traguardi, degli obiettivi. Morte e suicidio danno senso alla vita, ma ancora una volta la nostra società tende a rimuovere le emozioni che disturbano, per sentirti adeguato devi essere sempre allegro e felice e rimuovere ogni pensiero negativo».

Come migliorare concretamente la comunicazione con un figlio adolescente?
«Stasera torniamo a casa, guardiamo nostro figlio adolescente e proviamo a concentrarci su ciò che ha attirato la sua curiosità, su cosa lo preoccupa e angoscia, magari possiamo anche chiedergli un commento al fatto di cronaca di Paderno. Anche se non dovesse aver voglia di rispondere, apriamo una possibilità di dialogo, facciamoci trovare pronti ad ascoltarlo, ad accogliere le sue paure, sofferenze, angosce, pensieri. È un’operazione semplicissima, ma attenzione a non concentrarci sulle nostre emozioni o aspettative. Proviamo a capire nostro figlio, che cos’ha da dire, cosa prova e cosa può preoccuparlo, ascoltiamolo. Mettiamolo al centro dei nostri pensieri e accogliamo tutto ciò vorrà condividere, solo così saremo adulti davvero autorevoli e potremo fare “prevenzione”».